Salute mentale, dipendenze… Le strutture di recupero, oggi – in molti, troppo casi – assomigliano più a dei parcheggi che a luoghi di rinascita. È una realtà amara, non solo per chi si trova a combattere contro dipendenze e disagi psichici, ma anche per le famiglie che si affidano a queste comunità sperando in un riscatto per i propri cari. Troppo spesso, però, ciò che viene offerto è un programma sterile, limitato a pochi colloqui psicologici e a un’attesa passiva che il tempo faccia il suo corso.
E mentre si parla di “percorsi di recupero”, la realtà spesso smentisce le belle parole che campeggiano sui siti internet di queste comunità. Quello che dovrebbe essere un luogo di rigenerazione finisce per diventare un deposito di persone in difficoltà, abbandonate a sé stesse nel limbo dell’incertezza, con pochi strumenti concreti per risalire la china.
Non è una questione solo economica, anche se il denaro gioca un ruolo importante. C’è un problema ben più grande, ed è l’assoluta mancanza di programmi strutturati e pensati per ricostruire una vita. Il dramma è che molti di questi centri non sono preparati a gestire le vere complessità della psiche umana.
Non basta un tetto e qualche seduta di terapia per risolvere problemi radicati nella sofferenza più profonda. La domanda è se questi centri siano realmente in grado di offrire un’opportunità concreta di recupero, oppure se siano solo un tampone temporaneo per un disagio che continua a covare sotto la superficie.
C’è poi un altro aspetto inquietante: il sistema di presa in carico. Non si cerca la comunità “giusta” per un ragazzo o una ragazza in difficoltà, ma semplicemente una comunità che sia disposta ad accettarlo. Questa differenza è abissale. Non si parla di trovare un programma su misura, calibrato sulle specificità del singolo, ma solo di trovare un posto disponibile. E quando l’obiettivo è semplicemente riempire i letti, tutto il sistema di recupero si trasforma in una corsa contro il tempo, dove a perdere sono proprio i più deboli.
Il problema si amplifica ulteriormente quando si guarda all’intero sistema di salute mentale. I Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) si trovano in uno stato di abbandono che riflette lo stesso vuoto dei programmi di recupero. Oggi, 10 ottobre 2024, nella Giornata Mondiale della Salute Mentale, ci saranno oltre 150 eventi in Italia per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema.
Ma le iniziative non bastano. Il vero problema è che circa 2 milioni di persone che dovrebbero ricevere assistenza dai Dsm non sono seguite. E non si parla solo di una carenza di risorse economiche, ma di un sistema che fatica a coordinarsi, in cui i servizi di psichiatria, i centri per disabili adulti e i Serd (Servizi per le Dipendenze) non dialogano tra loro. Questo crea un ritardo cronico nell’offerta di soluzioni e, spesso, quando finalmente arrivano, è troppo tardi.
Il disagio psichico è in costante crescita, ma i fondi dedicati alla salute mentale sono sempre insufficienti. Servirebbero almeno 2 miliardi di euro in più solo per garantire i livelli minimi di assistenza, ma la spesa attuale è appena il 2,5% del Fondo sanitario nazionale. In un Paese che si vanta di essere tra le economie più sviluppate d’Europa, questo è semplicemente inaccettabile. Le strutture sono sottodimensionate, con un numero di operatori che è inferiore del 30% rispetto agli standard minimi richiesti. Ma, come al solito, si preferisce ignorare il problema finché non scoppia in tutta la sua gravità.
La salute mentale richiede investimenti, sia economici che umani. Ma più di ogni altra cosa, richiede una visione strategica. Serve un piano di lungo termine che metta al centro non solo la cura del sintomo, ma la ricostruzione della persona.
E questo vale anche per chi è intrappolato in una rete di dipendenze e disagio psichico. Non basta riempire le comunità di persone, non basta fornire qualche colloquio psicologico o somministrare farmaci. Ci vuole un impegno reale per creare programmi che offrano una vera via d’uscita, e che non siano solo parcheggi in attesa di tempi migliori. Serve una rete di servizi che dialoghi, che sia coordinata, e che metta al centro la persona, non l’efficienza del sistema o la riduzione dei costi. Solo allora potremo con coscienza dire di essere un Paese “civile”.
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